02:53 27-11-2025

Miti dell’apprendimento: piramide di Dale e 8 secondi

Analizziamo tre miti nella formazione: piramide di Dale, stili di apprendimento e mito degli 8 secondi. Prove e indicazioni per pratiche basate su evidenze.

Nel mondo dell’istruzione, delle risorse umane e della formazione aziendale continuano a circolare alcune idee vistose, spesso presentate come certezze scientifiche. Tra queste: la piramide di Dale, la teoria degli stili di apprendimento e l’affermazione secondo cui una persona riuscirebbe a concentrarsi solo otto secondi. Nonostante critiche e ricerche, queste convinzioni resistono. Tornare alle fonti originarie e osservare come la cultura di massa diffonde il sapere aiuta a capire il motivo.

La piramide di Dale: che fine hanno fatto le percentuali di ritenzione

Nella versione popolare della piramide si sostiene che le persone trattengano percentuali fisse di informazioni in base al formato: il minimo con lettura e lezioni frontali, di più con discussione, pratica e insegnando ad altri. Lo schema viene spesso attribuito a Edgar Dale o al NTL Institute.

Quando i ricercatori hanno provato a rintracciare lo studio originario da cui deriverebbero quelle percentuali, non è emerso alcun dato. NTL non ha saputo fornire metodologia né misurazioni, e Dale non parlò mai di percentuali precise. Propose un Cone of Experience, un modello descrittivo su come interagiamo con le informazioni, non una statistica quantitativa.

Eppure il grafico delle percentuali circola senza sforzo: appare in slide, manuali e percorsi di formazione. Il fascino è evidente: semplicità visiva, gerarchia ordinata e un messaggio che accarezza la convinzione diffusa che l’apprendimento attivo superi i formati passivi. Proprio perché sembra così pulito, pochi si fermano a metterlo in discussione.

Stili di apprendimento: perché l’idea suona plausibile

La teoria degli stili di apprendimento sostiene che le persone abbiano canali di percezione stabili — visivo, uditivo, cinestetico e così via — e che allineare l’insegnamento allo stile individuale dovrebbe migliorare i risultati.

Le revisioni sistematiche non trovano prove a sostegno. Per testare seriamente l’ipotesi servono disegni rigorosi con assegnazione casuale ai metodi e una verifica esplicita dell’interazione tra stile e metodo. La maggior parte degli studi che sembrano confermare la teoria non raggiunge quell’asticella. In più, i questionari sugli stili risultano spesso poco affidabili.

Eppure l’idea resiste. Pesa il suo richiamo psicologico: la promessa di un percorso su misura per ogni discente. Le persone notano le proprie preferenze — per schemi, testo o attività pratiche — e le scambiano per strategie che davvero potenziano l’apprendimento. La teoria viaggia poi attraverso corsi, training e libri divulgativi, dove i dettagli metodologici stringenti raramente compaiono, così finisce per sembrare sapere condiviso.

Gli otto secondi di attenzione: da dove arriva quel numero

L’affermazione secondo cui una persona mediamente riuscirebbe a mantenere l’attenzione solo otto secondi è spesso accompagnata dal paragone con il pesce rosso, a cui se ne attribuiscono nove. La frase si è diffusa tramite materiali che rimandavano a un report di Microsoft sull’impatto dell’ambiente digitale.

I tentativi di rintracciare dati scientifici a sostegno di quella cifra non hanno dato esito. Quei report si appoggiavano a input di marketing senza una metodologia trasparente. Gli studiosi dell’attenzione osservano che la concentrazione dipende dal compito, dalla motivazione e dal contesto, e non può essere ridotta a una costante unica. Non c’è neppure evidenza per i famosi nove secondi nei pesci.

Malgrado basi fragili, il mito è ovunque. È comodo per articoli e presentazioni; il contrasto tra esseri umani e un pesce rosso è vivido e rimane impresso. Inoltre intercetta ansie diffuse sulla tecnologia digitale, e questo lo aiuta a durare.

Perché miti così attecchiscono con facilità

Queste tre idee condividono tratti che spiegano la loro tenuta nel tempo.

Semplicità e chiarezza. Grafici, numeri e affermazioni ad effetto si ricordano facilmente e si diffondono in fretta.

Parziale sovrapposizione con la realtà. I metodi attivi possono dare ottimi risultati. Le persone hanno preferenze. L’ambiente digitale incide sull’attenzione. I miti si agganciano a fenomeni reali, ma li presentano in forma eccessivamente semplificata.

Prova sociale. Una volta che un’idea compare in manuali, slide e training, inizia a sembrare un elemento standard della cultura professionale.

Interesse commerciale. Molti prodotti per l’apprendimento fanno leva su concetti accattivanti che non sempre sono accurati.

Divario tra ricerca e pratica quotidiana. Docenti e professionisti della formazione raramente consultano le fonti primarie e si affidano a resoconti popolari.

Cosa tenere a mente

I miti educativi sopravvivono non perché le persone ignorino volontariamente i fatti, ma perché i modelli semplici sono comodi, mentre le spiegazioni che richiedono davvero prove tendono a presentarsi in modo più complesso. Così le stesse idee migrano di libro in libro e di slide in slide.

Un atteggiamento accorto verso questi schemi non implica abbandonare l’apprendimento attivo o l’attenzione al singolo. La questione è distinguere la ricerca effettiva da affermazioni avvincenti ma non dimostrate. È questo che aiuta a costruire pratiche educative fondate sulle evidenze, non su nozioni di moda.